(Tratto da IL RIASSUNTO DEL BABBO pubblicato nel 2006 a cura di Grafiche Amadeo)

Il giovane aspide uscì, fischiando appena, dalla confortevole ombra di una radice di mangrovia e si diresse, non visto, verso la vecchia palude; lì sperava di fare colazione a spese di qualche oloturia o di quell’ululone di cui, la notte, aveva distinto l’insistente e sgradevole verso. Da pochi minuti era esplosa l’alba equatoriale di una giornata incandescente; occorreva procurarsi velocemente una riserva energetica e tornare a pisolare sotto un riparo, in attesa che il disco di fuoco la smettesse di bruciare il cervello.

Il villaggio di Uranare, affacciato sul grande lago, sotto il primo sole già caldissimo, dava segni di risveglio, mentre le rare piante smaltivano in fretta l’umidità della notte dell’altopiano. Combattendo la nausea e il dolore di testa, regalo di una notte di baldoria celebrata alla fine della giornata di mercato, Cesar Garambitse entrò in quel momento nel recinto degli animali, come ogni mattina all’alba, assieme a Paul, il maggiore dei suoi sette figli: le bufale sembravano nervose e poco interessate alla pastura che i due versavano nelle greppie. Appena passati i quarant’anni, poco meno di due metri di altezza, Cesar Garambitse aveva un fisico scolpito nel marmo e i muscoli scattavano sotto la pelle colore dell’ebano come molle a lungo compresse e liberate all’improvviso; non conosceva fatiche impossibili e qualsiasi lavoro incominciasse, lo terminava con la stessa apparente facilità, lo stesso sorriso e quel profondo sguardo orgoglioso che suo nonno aveva regalato a suo padre e che lui stesso incominciava a notare negli occhi del figlio Paul: lo sguardo dei Tutsi.

Anche Cesar Garambitse, quella mattina, si sentiva a disagio: forse la birra o il lamento degli animali, che gli avevano negato il solito sonno notturno; o il peso di essere capo del villaggio da poche settimane, e le brutte notizie che gli arrivavano dai rari passanti. Ed erano notizie di paura; no, di terrore; di terrore e di morte. Gli odiati Hutu avevano preso il potere in Rwanda. Un potere che non li aveva appagati, anzi, li aveva spinti contro gli stessi compagni di etnia se moderati e desiderosi di pace. Quanto tempo sarebbe ancora passato prima di poter vivere senza la Paura, il Sospetto verso il vicino, il machete appeso al fianco, indesiderato ma obbligatorio compagno di qualsiasi modesta azione giornaliera! Chi, fra le mille anime di Uranare, avrebbe mai vissuto un’alba di pace?

Anche se non fosse stato nascosto dentro il buio della macchia a pochi metri dal recinto degli animali di Cesar Garambitse, nessuno avrebbe potuto vedere il giovane Hutu e la sua banda di carnefici in agguato tra il sole e il villaggio, unica finezza strategica in un contesto di pura aggressione omicida. Sicuro di non essere visto, il giovane Hutu si rizzò sulle brevi gambe e contrasse i muscoli ventrali, per prepararsi all’assalto, ma anche per spazzare via l’irrigidimento dovuto al lungo appostamento notturno. Lentamente si tolse gli auricolari della radio da campo che fino a qualche secondo prima aveva trasmesso, attraverso “Radio mille colline”, deliranti inviti al massacro. Della sua uniforme da guerriero, messa insieme con discreta fantasia, erano notevoli un paio di Adidas rosse, comperate al Duty Free di Orly, in uno di quei suoi misteriosi viaggi in Francia. Era al comando di circa cento uomini, giovani, esaltati, piccoli e veloci come lui. Armati di machete e pochi fucili automatici, oltre che, naturalmente, di una nefasta fede e del fattore sorpresa. In due silenziosi salti arrivò alle spalle di Cesar Garambitse che morì in pochi secondi, la gola tagliata, senza aver potuto mettere le mani sulla sua arma di difesa né urlare per avvertire dell’attacco. Era il segnale: gli Hutu entrarono nel villaggio veloci come il vento di traversia e silenziosi come aquile in picchiata.

In quel preciso istante, il giovane aspide ingoiò la sua preda dal destino già scritto: anche questa volta la natura aveva firmato il copione ineludibile di una storia nella quale cambiano solo i nomi degli attori.

Furono uccisi prima gli uomini, neutralizzando così la difesa del villaggio, poi i vecchi e i bambini. Le donne, risparmiate per qualche ora, servirono per soddisfare le voglie animali degli Hutu; poi furono uccise tutte. In pochi riuscirono a fuggire, corsero verso est, unica direzione possibile, per via del lago, e trovarono i fucili Hutu. Le case di Uranare furono bruciate una per una: per ultima la vecchia chiesa, dopo aver chiuso tutte le vie d’uscita per assicurarsi che i Tutsi rifugiatisi non avessero scampo.

Il giovane aspide, nella grande e inattesa confusione cercò immediatamente riparo, mal sopportando quell’odore di morte che gli danneggiava la digestione.

Gli Hutu lavorarono con impegno, in silenzio, gli occhi sbarrati come posseduti dalla droga: uccisero con mestiere, uccisero tutti, nessuno di loro si chiese perché. Poi, dopo aver infierito sui cadaveri, mutilandoli, li buttarono nel lago, sperando che le correnti li portassero su qualche spiaggia, a monito di altre popolazioni. E se ne andarono, con la precisa convinzione che avrebbero ucciso ancora.

Il giovane aspide si é addormentato, ma dormirà male: anche per lui tutto quel sangue é troppo. Una vittima, una sola per volta, per sopire la fame. Non di più. Questa é la natura, tutto il resto é contro.

Adesso le ombre lunghe vanno verso est. La palla di fuoco ha quasi terminato la sua giostra: appena scomparirà, inghiottita dall’orizzonte, calerà improvvisa la notte dell’altopiano. Cesar Garambitse, suo figlio Paul, Sara la giovane maestra della Scuola, Angelo il pastore di anime, Mark, Louis e tutti gli altri, non la vedranno più. Almeno non con i loro occhi umani. A centinaia i cadaveri galleggiano sulle acque del grande lago: il sangue disperso le colora di rosso porpora che si mescola, in maniera sinistra, con i colori caldi del tramonto. Dov’era Uranare bruciano cento fuochi: non scaldano più nessuno e avranno il solo scopo di ritardare il laido pasto di iene e avvoltoi. Con Cesar, Paul e gli altri muore, in un fango di argilla e sangue, anche questo giorno che é tra gli ultimi della torrida estate equatoriale: é l’11 settembre 1994.

Il mondo non saprà mai.

Ad assistere alla fine di Uranare e dei suoi mille abitanti, nessun testimone neutrale. Solo un piccolo, insignificante aspide che dorme, inquieto, in un anfratto umido e tiepido. Nessun reporter in azione, nessuna telecamera, nessuna fotografia scattata da uno di quei cento satelliti che pure sono capaci di riprendere il signor Rossi che fa la pipì nel giardino. Niente, nemmeno una semplice polaroid  da distribuire ai media.

Nessuna traccia audio, niente di niente. Solamente mille morti, straziati, in fondo al grande lago.

A pensarci bene, forse, questa storia che non interessa nessuno, non é mai esistita.