Racconto di viaggio

Questa tormentata repubblica dell’Asia centrale ha una sua bandiera, una compagnia aerea nazionale e una manciata di ambasciate all’estero. Ma nonostante questi simulacri di sovranità rimane un paese curiosamente incompleto e con grandissimi problemi. La parte settentrionale appartiene di fatto all’Uzbekistan; la capitale, Dushanbe, una città che ha meno di 75 anni, sembra un appartamento in attesa che gli inquilini vi vadano ad abitare; la regione montuosa del Pamir, un vero Paradiso e il “fiore all’occhiello” della Nazione, nonostante i tentativi sovietici di popolarla, è ancora praticamente un deserto. Il fatto che il Tagikistan fosse la più artificiosa delle cinque repubbliche sovietiche dell’Asia centrale è stato tragicamente dimostrato dalla rapidità con cui si è sfaldata quando ebbe fine il controllo diretto da parte di Mosca. La guerra civile ha imperversato fino alla stipula di un cessate il fuoco verso la fine del 1996. A metà dell’anno seguente l’Iran, la Russia e le Nazioni Unite insieme fecero da intermediari affinché le parti giungessero a un accordo di pace.

Nonostante i balli di gioia nelle vie di Dushanbe e le speranze per un futuro migliore, il paese ha dimostrato di non avere conquistato la stabilità e sopravvive grazie ai crediti e ai prestiti della Russia, mentre le popolazioni del Pamir devono contare sulle elargizioni dell’Aga Khan. Il complesso dei monti Pamir presenta al visitatore incomparabili paesaggi che rendono praticamente ridicola qualsiasi regione montuosa di qualunque parte del mondo, con la sola eccezione del Tibet. C’è una strada, in quota. Vi concederà il privilegio dei brividi dell’altitudine, senza essere obbligati a piccozza e ramponi.

Chiunque decida di intraprendere oggi un viaggio in questo paese deve assolutamente ottenere informazioni aggiornate circa la situazione della sicurezza. Ciò era vero anche allora. Ma noi non lo sapevamo. Questo è un ricordo di uno dei miei viaggi in quella terra aspra.

Era il 1989. L’URSS tremava già. Dopo oltre un milione e mezzo di morti, la guerra che aveva incendiato l’Afghanistan per dieci anni, era appena terminata. Per merito di Mikhail Gorbaciov. Il 3 febbraio l’ultimo soldato sovietico era ritornato oltre il confine.

Il 5 marzo, alle 7 di una mattina gelida, dopo aver atteso per oltre due ore dentro un’incredibile sala d’attesa, qualcuno ci spinse sulla pista piena di neve e ci indicò un gruppo di aerei parcheggiati: si vedevano appena. La neve arrivava alle ginocchia. Però per noi fu un sollievo uscire all’aria aperte: nella cosiddetta sala d’attesa mancava tutto, anche il gabinetto. Uomini e donne orinavano e defecavano di fronte a tutti in uno dei quattro angoli della stanza, portato al rango di latrina dal popolo sovrano. I primi tre aerei rifiutarono di prenderci a bordo: erano diretti altrove. Inutile girarsi indietro, l’aerostazione era oramai lontanissima e i neon della squallida baracca risultavano appena visibili. Sulla pista eravamo soli e le sagome dei Tupolev in sosta ci sovrastavano come tanti Ufo Robot in guardia. Al quarto tentativo, una hostess incappucciata e semicongelata in cima alla scaletta, ci fece cenno che sì, quello era il Tupolev che stava per partire per Dushanbe. Ci si abitua a tutto, questo è vero, ma nonostante ciò, il fatto di vagabondare per una pista dell’aeroporto Sheremetyevo, tra colline di neve a cercarci l’aereo da soli, rimane ancora oggi una delle esperienze più incredibili della mia vita.

Il Tupolev era già stracolmo. Da dove fossero arrivati tutti quelli, rimase un mistero. Era povera gente che rientrava a Dushanbe e a Kurgan Tyube. Uomini donne e piccoli animali che producevano miasmi, calore e umidità in quantità impressionante. La hostess contò i passeggeri, anche se non tutti erano seduti. Contare persone in piedi, che magari cambiano posizione in fretta, si sa, non è facile. Allora, per essere sicura di non sbagliarsi, la ragazza lavorava con una macchina contatrice simile a un cronometro. Ogni volta che si trovava nelle prossimità di un passeggero, lo guardava dritto negli occhi, alzava la mano armata e premeva il tasto del contapersone, accompagnandolo con un ampio movimento del braccio e un impercettibile movimento delle labbra: lei e la macchinetta contavano assieme. Fece l’operazione due volte, con il viso sempre più imbronciato. Poi entrò decisa nella cabina dei piloti. Uno di loro uscì e rifece l’operazione assieme a lei. C’era un passeggero in più! Fu sistemato nella toelette di coda, e l’aereo partì. Durante il volo venne offerto un pasto caldo: pollo lesso e peperoni arrostiti. Forse non degni dell’arte di Vissani, ma non peggio dei pasti della nostra compagnia di bandiera. Alla frutta (una macedonia conservata male) il mio vicino di posto mi guardò con un sorriso reso scintillate da quattro incisivi d’oro, e mi mostrò il cucchiaino di latta con il marchio dell’Aeroflot. Si guardò intono con aria furbetta e, sicuro che nessuno lo vedesse, fece scivolare il cucchiaino nella tasca del pastrano. Beh, pensai io, lo fanno in molti! Da noi è quasi una regola. Ho conosciuto gente che si è fatta un intero servizio. Un mio conoscente aveva una piccola barca a motore e si rubò quattro salvagente (uno per viaggio) da sotto il sedile! Ma nell’Unione Sovietica non funzionava così! Certo, nessuno aveva visto il pericoloso delinquente mentre delinqueva, ma dopo qualche minuto, ritirati i vassoi, la hostess più alta in grado si materializzò nel corridoio con una faccia da pitbull inferocito e, attraverso l’altoparlante intimò: “il comandante avverte che, fino a quando non sarà trovata la posata mancante, la procedura di atterraggio non verrà iniziata!” Lo disse solo in russo, ovviamente, perché non era nemmeno in discussione che un passeggero di altra madrelingua avrebbe messo gli occhi su un pezzettino di latta a forma di cucchiaino del valore di qualche centesimo di rublo. Vale a dire di pochissimi millesimi di dollaro. Quando già incominciavo a calcolare quanto cherosene il pilota sarebbe stato disposto a barattare per un cucchiaino di latta, il furfante si alzò imbarazzato e consegnò il bottino all’equipaggio. Dalla mimica mi parve volesse spiegare che il prezioso oggetto gli era sfortunatamente caduto infilandosi in una piega del pastrano. Non so se gli cedettero, ma registrarono comunque i suoi documenti. Da quel momento, tutti gli altri passeggeri, quali virtuali rappresentanti dell’intero popolo sovietico, vero titolare della proprietà di quell’arnese, riservarono al poveretto un terrificante sguardo che rimase ostinatamente severo anche durante la procedura di atterraggio che potè dunque cominciare. E che, considerando la pericolosità della manovra e la sconsiderata andatura che il pilota decise di assumere, avrei pensato si sarebbe trasformato in uno sguardo di supplica, se non addirittura di mistica rassegnazione.

E fu così che, con un passeggero chiuso nella toeletta di coda anche durante la procedura di atterraggio, non si sa come arrivammo anche noi nelle terre musulmane dell’Impero. Aldo, Pietro, il nostro interprete Yaro, un moravo che era sempre dappertutto, tanto da giustificare l’ipotesi che potesse trattarsi di un agente del KGB, e io. Il volo Aeroflot era settimanale. Non avremmo potuto scappare da quel posto per i successivi otto giorni!

Dushanbe, la capitale, costruita allora da non più di cinquant’anni, aveva un aspetto terribilmente desolante. Interi quartieri disabitati e costruzioni abbandonate ancora prima di essere completate. Ma la gente non era fuggita via, semplicemente non era mai arrivata. Si respirava un’aria pesante e un inquietante senso di provvisorietà. La povertà si avvertiva in ogni cosa: i quartieri dormitorio di Mosca sembravano belli in confronto alle case del centro come San Babila appare più elegante di Sesto San Giovanni. Le statue di Lenin, sistemate nei posti più incredibili, erano certamente molto, ma molto più numerose della gente in giro.
 un chiosco di fiori (in plstica) al centro

Per strada, sgangherati autobus gialli, con frequenze esagerate, non trasportavano altro che se stessi da un capo all’altro del nulla. L’aeroporto internazionale (nell’URSS di quegli anni tutti gli aeroporti delle Repubbliche annesse erano internazionali), quasi a certificare la presenza della potenza dominante, era virtualmente inserito nel fuso orario di Mosca. Quando atterrammo indicava le 09,20 del mattino, anche se era già quasi mezzogiorno. In ogni caso anche il fuso orario di Dushanbe era virtuale: albeggiava alle 3 del mattino e alle 14 già si vedeva poco per strada. Non ho mai capito perché negli aeroporti delle Repubbliche gli orologi fossero regolati con l’ora di Mosca, né me lo hanno mai saputo spiegare: mi sembra troppo banale pensare che questa scelta fosse fatta per problemi di coordinamento logistico dei voli. Ad attenderci all’aeroporto c’era Vladimir. Era arrivato con una Ziguli color ruggine, ma anche molto arrugginita. Vladimir era un siberiano corto e robusto, con lo sguardo gelido di un Husky da slitta. Parlava pochissimo, per fortuna, e in maniera quasi incomprensibile persino dal nostro interprete. Mi è comunque rimasto di lui il ricordo di straordinario bevitore: a tavola riusciva a bere Vodka e Cognac in quantità impressionanti e, quando si mangiava in sua compagnia, ordinava perentoriamente al cameriere di non portare acqua, per nessuna ragione. Seppi, qualche anno dopo, che fu ucciso con una pugnalata durante i moti rivoluzionari del 1991. La Zigulì, cigolando, riuscì a portarci all’albergo. Eravamo gli unici ospiti, ma le pratiche di registrazione furono comunque lunghissime: Vladimir e Pietro ebbero il tempo di portarci nelle stanze i bagagli, uscire in strada, andare non so bene dove per affittare una Zaz, riempire il serbatoio con la benzina contenuta in certe taniche magicamente comparse nel bagagliaio della Zigulì, pulire alla meglio il cristallo della Zaz con un panno di lana (che è universalmente noto come uno dei peggiori pulitore di cristalli) e ritornare nella hall dell’albergo, dove sollecitarono la nostra pratica. Ho chiamato hall il luogo, “quel” luogo, perché non mi viene in mente un lemma diverso: ma se penso che si chiama hall anche il locale omologo dell’hotel Atlantic di Amburgo, mi rendo conto di quanto sia povero il mio vocabolario!

Dopo circa un’ora uscimmo di lì per andare a pranzo: faceva decisamente caldo, per la stagione. Aldo quindi piegò la sua pelliccia di lupo e la buttò dentro la Zaz.

Quella pelliccia di lupo fu la sua croce (e anche la mia) per tutto il viaggio. E per molto tempo dopo. Si trattava di un capo d’abbigliamento di vago aspetto zarista, acquistato a Roma attorno all’epifania: la prima volta in Tadjikistan preoccupava per il clima, anche se non solo per quello. Allora Aldo, considerando assolutamente inadeguata la mia Henry Loyd, aveva voluto esagerare: cappottone in renna lungo fino alle caviglie con interno in pelo. Di lupo. Peso stimato attorno ai ventisette chili e indumento capace di conservare la temperatura corporea anche a Natale in piena tundra siberiana. Vladimir, che siberiano lo era davvero, vedendo Aldo con il lupo addosso, aveva scosso la testa, proprio come faceva il mio professore di latino appena finiva di interrogarmi e un attimo prima di darmi il solito tre meno.

Dunque, fuori dall’hotel ci rendemmo conto, per la prima volta, di essere in piena Asia centrale e, comunque, alla longitudine più orientale mai raggiunta nei nostri viaggi.

Il pranzo era stato organizzato nell’alloggio privato di Sergej. Sergej era il capo del Soviet e quindi una persona di rango, uno di quelli che con un solo sguardo si assicurano l’attenzione di qualsiasi assemblea. Organizzare il pranzo a casa sua era stato un privilegio concesso in considerazione dell’importanza che la nostra delegazione aveva per la balbettante economia locale. Orario: dieci e mezza del mattino. Va detto che in quel posto, come succede in quasi tutte le organizzazioni sociali ostinatamente ancorate alle tradizioni e per le quali non esistono molti altri strumenti utili per celebrare un evento, il banchetto resta la migliore forma attraverso la quale l’ospite riesce a far arrivare all’ospitato il senso del proprio sentimento di stima e di gratitudine per la collaborazione che sta per nascere. Questo era il nostro caso. Per quanto poi riguarda l’orario, beh ci sembrò subito chiaro che nessuno si era mai abituato al fuso forzato e il pranzo veniva celebrato (SE veniva celebrato) nel momento centrale della giornata. A qualunque ora convenzionale questo corrispondesse.

Sergej ci aspettava sulla soglia di casa, proprio davanti al piccolo portoncino che quasi nascondeva con la sua mole: al suo fianco i due figli maschi. Era un uomo alto e forte, con i capelli nerissimi e uno sguardo fiero ma gentile. Sopra una giacca color melanzana indossava un cappotto grigio di lana pesante. Un capo confezionato in qualche fabbrica del regime nella quale la produttività e l’efficienza venivano valutate in base al peso del prodotto finito. Evidente che doveva trattarsi del suo abito migliore, altrimenti non l’avrebbe esibito sotto il sole. Le presentazioni furono accurate e formalmente impeccabili: Aldo, il capo delegazione, fu presentato per primo. Sergej gli porse una forma di pane e una manciata di sale, l’offerta tradizionale riservata a tutti gli ospiti graditi. Poi Sergej, senza muoversi dalla sua posizione, come se volesse ritardare per qualche oscura ragione l’introduzione della delegazione nel suo appartamento, si lanciò in un discorso di benvenuto. Che fosse di benvenuto lo si capì dalla solennità del suo sguardo e dai gesti delle sue mani. Non certo dalla disastrosa traduzione del nostro interprete del quale ci fu invece chiarissima l’assoluta inadeguatezza. Il discorso finì e tutti quelli che l’avevano compreso applaudirono convinti. Noi ci limitammo a un sorriso e un piccolo cenno del capo. Come dire: va bene, tutto bello, ma adesso che si fa? Allora Sergej si infilò finalmente in casa e tutti noi lo seguimmo, su per ripidissime scale.

Il pranzo era già servito in tavola e ci colpirono subito la ricchezza dei piatti, in aperto contrasto con la modestia della piccolissima stanza e di tutte le attrezzature stipate al suo interno; la totale assenza di donne che, evidentemente, avevano preparato e si erano poi defilate in dignitoso silenzio; la mancanza di acqua in tavola. Ogni due posti, una bottiglia di vodka, della migliore, e una di cognac VSOP. Il pranzo, o almeno quella parte di pranzo che ricordo, fu notevole per la qualità del cibo, la cornice di formalità che ne fece quasi una rappresentazione teatrale e l’incredibile quantità di alcool che fu consumata. Mangiammo caviale veramente squisito, salmone affumicato e storione essiccato, stufato di pecora, una peperonata sontuosa che nemmeno la mia nonna riusciva a farla meglio, patate bollite e cipolle a volontà. Ogni commensale aveva poi a disposizione una tazza, grande come le nostre del caffelatte, piena di burro leggermente salato, che si sposava a meraviglia con l’ottimo pane di segale. Fu una cerimonia interminabile. Una cerimonia che ne raccolse altre, nella migliore tradizione locale. Sergej prese posto a metà di uno dei due lati lunghi del tavolo e volle che Aldo, l’ospite più importante, sedesse proprio di fronte a lui. Questo perché è costume, tra quella brava gente, che il padrone di casa si adoperi per servire l’ospite: versandogli il cibo nel piatto, sbucciandogli la frutta, cambiandogli il tovagliolo, se necessario e…riempiendogli continuamente il bicchiere; ecco perché il padrone di casa non siede a capotavola. Sì, i nostri bicchieri venivano continuamente riempiti e poi svuotati in pochi secondi. Ma una ragione c’è ed è una ragione di galateo. Ora, che cosa si fa, di solito, a tavola in presenza di un ospite di riguardo? Ma è ovvio, si propone un brindisi! Solo che una cosa è proporre un brindisi a fine pasto o anche non a fine pasto, ma durante una pausa tra due portate. Un’altra è proporre un brindisi ogni tre, massimo quattro minuti!

Le cose andarono più o meno così. Seduti a tavola, incurante del fatto che chiunque si fosse alzaro avrebbe fatto sbattere lo schienale della sedia contro il muro, tanto era piccola la stanza, Sergej si alzò. Teneva stretto il suo bicchiere pieno di vodka. Incominciò a dire cose che riguardavano il grande aiuto che gli italiani stavano per dare alla sua gente e la gratitudine che loro avrebbero dovuto riconoscere ai fratelli occidentali. Finito il discorsetto guardò Aldo diritto negli occhi. Era il segnale. Tutti ci alzammo in piedi, naturalmente ciascuno con il suo bicchiere pieno di vodka e facendo sbattere le sedie contro il muro. E bevemmo, appena Sergej ebbe terminato di bere. Dopodichè, Aldo e io, che evidentemente non avevamo ancora capito un granchè del perverso rituale, ci risedemmo, forse temendo che qualcuno ci fregasse il caviale dal piatto. Gli altri rimasero in piedi e ci guardarono con compassione, ma anche con rispettoso rimprovero. Allora capimmo. Aldo si rialzò, mentre qualcuno gli riempiva di nuovo il bicchiere (con la vodka, naturalmente), lo alzò in aria e disse qualche elegante corbelleria, tanto per dire. Gli altri sembrarono soddisfatti e ribevvero dietro Aldo. In pochi secondi, avevamo trangugiato la dose di alcool che solitamente assumiamo durante tutte le feste natalizie. E non si era ancora iniziato il pranzo. La doppia procedura si ripetè a intervalli di pochissimi minuti e il proponente del brindisi era sempre un commensale diverso, ma con un preciso schema che prevedeva una rotazione in senso antiorario: proposta di brindisi, bevuta, risposta della parte chiamata in causa e altra bevuta. Dalle undici circa fino a dopo le sedici, ora locale. Ogni pretesto era buono per proporre un brindisi agli italiani lì presenti e ogni proposta esigeva una risposta. Pena una grave offesa. Furono toccati tutti i temi: la pace nel mondo, il Papa, l’ecumenismo e la pacifica convivenza tra le religioni, Paolo Rossi e la juventus, i Presidente Gorbachov, il desiderio di libertà e la bellezza delle donne italiane. A mano a mano che passava il tempo, gli argomenti diventavano sempre meno impegnativi e le parole sempre meno comprensibili. Io fui abbastanza fortunato, perché non amo il cognac: quindi, finita la vodka e non essendo possibile reiterare il miracolo delle nozze di Cana per mancanza del personaggio principale, smisi di bere e me la cavai senza troppi danni. Alle cinque di pomeriggio ci caricarono sulla Zaz. Aldo si coprì con la pelliccia di lupo e si addormentò, continuando a dormire anche quando lo portarono nella stanza d’albergo. Io mi sentivo la testa un po’ pesante, ma la vodka ha l’incredibile vantaggio di lasciare pochissime tracce e di essere digeribilissima. Mi rigirava però in testa un inquietante interrogativo: ma che cosa avevamo concluso, in quel pranzo? Che cosa ci eravamo detti? Oltre all’esibizione della propria resistenza alla vodka, che cosa era rimasto?

Ce lo avrebbero spiegato l’indomani. Perché il giorno dopo, la nostra delegazione si trasferì a Kurgan-Tyube per poi raggiungere Dusti, un piccolo centro qualche decina di chilometri a Sud, sul confine con l’Afganistan.

Da Dushanbe a Kurgan-Tyube ci sono poco meno di 90 chilometri che, in virtù della scadente propensione al comfort della Zaz e alla pessima manutenzione della strada, sembrarono almeno il doppio. Ma la natura del luogo è di inarrivabile bellezza e ciò fu di grandissimo aiuto. Appena fuori dalla capitale la strada si srotola tra boschi e radure verdissimi. Poi tutto finisce di colpo e incominciano le prime alture. La Zaz si arrampicò su una strada stretta e ripidissima per due volte. Due passi molto alti, battuti da un vento fortissimo e gelido che sollevava polvere e sassi. Il sole picchiava deciso senza però riuscire a scaldare un granchè e la Zaz era senza riscaldamento. Attorno a noi pochissime costruzioni. E quelle che incontrammo erano distrutte o molto danneggiate dal terremoto che l’anno prima aveva colpito una vastissima area delle repubbliche islamiche dell’Impero. In giro pochissima gente. Per molti chilometri non vedemmo, attorno a noi, che rovine e fango.

Devo ammettere che la tristezza della situazione era in grande contrasto con l’imponenza della natura attorno. E, come al solito, mi sentivo estremamente a disagio nella mia posizione di quasi turista privilegiato. Incontrammo anche alcuni cantieri: si stava costruendo una strada molto importante. Intorno le case cadevano a pezzi.

Arrivati a Kurgan Tyube, conoscevamo tuttii dettagli della nostra missione e avevamo definito i particolari dei nostri prossimi incontri.

Kurgan Tyube assomigliava molto alla periferia di Dushanbe! Però aveva un aspetto molto più orientale e la nostra guida ci portò in giro per la città e per i dintorni indicandoci con entusiasmo le bellezze del posto. Si chiamava Goran, la nostra guida. Anche Goran era attrezzato con una serie di denti d’oro, compresi quelli anteriori e anche Darina, sua figlia di quattordici anni e anche sua moglie. Colpa dell’acqua, mi spiegarono, quella che il governo dice potabile. Contiene radioattività, mi disse Goran, e dopo pochi anni cascano i denti uno a uno, e chissà quali altri disastri combina dentro. Me lo disse ridendo di gusto. E l’oro degli incisivi brillò al sole del tramonto. Sembra che tutti i problemi siano nati da quando il governo decise di deviare il corso dei due affluenti al lago Aral per indurre l’acqua alle torri di raffreddamento di alcune centrali nucleari. Il lago Aral si trova a nord ovest di Kurgan Tyube, circa 700 chilometri in linea d’aria. E’ al confine tra il Kazakistan e l’Uzbekistan, anzi ne è il confine, nel suo lato Nord. Il lago è salato e negli ultimo trent’anni ha perduto quasi il 40% dell’acqua, lasciando le ex città costiere molto lontane dall’acqua e in balia delle tempeste di sabbia e sale che flagellano costantemente la costa Sud e Sud orientale, essendo i venti di Nord e Nord-Ovest. L’acqua rimessa in circolo porta radioattività e il vento porta il sale sui campi tadjiki: i denti (e chissà quale altra disfunzione) sono il risultato della prima, mentre il tumore agli occhi e all’apparato respiratorio, oltre alle distruzioni di massa delle piante di cotone, sono il risultato del secondo fattore. Insomma, un disastro ambientale di portata cosmica di cui, in quegli anni, si cominciava appena a parlare. Ma Goran sapeva bene che tutto ciò era da prendere con una certa filosofia e d’altro canto che cosa avrebbero potuto fare? Così passava la sua vita tra le bestie che gli venivano affidate dal kolkoz e assieme alla sua famiglia, cui dedicava molto tempo.

l’albero delle preghiere

Goran era molto devoto e pregava il suo Dio tutte le volte che il Corano glielo imponeva e quando la sua coscienza ne sentiva bisogno. Però era anche molto superstizioso, come quasi tutti i suoi connazionali e amava moltissimo un posto che aveva qualcosa di magico, per la verità. A pochi minuti di auto, in una piccola radura polverosa e battuta dal vento, c’era un piccolo alberello, rinsecchito e apparentemente insignificante. Il tronco era stato parzialmente verniciato con calce bianca. Da lontano pareva fiorito, almeno nella parte bassa dei rami. Ma non erano fiori. Erano migliaia di rotolini di carta legati con nastri colorati ai rami bassi, perché solo a quelli la gente poteva arrivare. Potevano essere ex voto, promesse d’amore, preghiere segrete che qualche madre aveva lasciato lì per il suo Dio affinché il figlio carrista potesse tornare sano da quella maledetta guerra nell’Afganista. Poteva essere di tutto: Goran rimase un lungo attimo in silenzio e Darina non volle dire altro. Una donna con la testa coperta da un foulard dai colori clamorosi, vedendoci arrivare, legò veloce il suo bigliettino al ramo e se ne andò via, lo sguardo basso. Il vento faceva fischiare i rami dell’albero, l’unico peraltro, lì intorno. I bigliettini vibravano in modo diverso l’uno dall’altro, come avessero una piccola anima che li guidava. I nodi erano perfetti, perché, mi spiegò Darina che parlava un po’ di inglese, il desiderio o la preghiera hanno successo solo se il biglietto non viene portato via dal vento.

l’antica porta della città

La vecchia costruzione lì vicina era l’antica porta della città. quanto antica nessuno seppe dirlo, ma certo il bisnonno del bisnonno di Goran già la vide costruita da qualche secolo. E magari la usò per entrare in città. Tutta la famiglia di Goran era ed era stata dedita alla pastorizia: questa è la ragione per cui ci mostrò, con un certo orgoglio la bassa costruzione circolare che si trovava proprio lì vicina, in un avvallamento del terreno, più protetta dal vento di Nord-Ovest. Era una curiosa costruzione di circa settanta metri di diametro, con un grande spazio al centro e diverse cellette a cielo aperto distribuite con regolarità sul perimetro. Darina spiegò che era ciò che restava dell’antico caravanserraglio, in uso fino a cinquant’anni prima. Uomini e animali, prima di entrare in città per il mercato, passavano la notte tutti assieme lì dentro condividendo qualche pezzo di pane, un po’ di formaggio e la luce incredibile delle stelle che lassù brillano in modo speciale. Non ne avevo mai visto uno, organizzato così. Quello di Aden era più moderno e più misero.

Goran ci lasciò il tempo di mettere a punto la nostra meraviglia poi si sistemò il suo ingombrante copricapo tadjiko, alzò delicatamente i sui larghi pantaloni e si avviò verso il campo di cotone del kolkoz. In condizioni normali, il cotone avrebbe avuto per me lo stesso interesse che hanno le rane australiane. Ma quel cotone aveva un significato particolare: era, o almeno avrebbe dovuto essere, il corrispettivo per il nostro lavoro tra i monti del Pamir. Noi dovevamo costruire alcune decine di poliambulatori elitrasportati e montati nelle località più inaccessibili e avremmo ottenuto in pagamento cotone grezzo. Il controvalore sarebbe stato definito dalla borsa inglese. Ma tutti noi avevamo fatto male i conti e non avevamo previsto le insormontabili difficoltà che l’incredibile sistema bolscevico ha sempre innalzato tra gli obbiettivi e i risultati! Così, dopo diversi giorni di vita avventurosa, dopo aver dormito sulle tavole di legno della foresteria del kolkoz e cenato sul biliardo della sala ricreazione, dopo aver stretto centinaia di mani ruvide appartenenti a onesti lavoratori, e altrettante appartenenti a parassiti di stato, la nostra visita terminò senza alcuna conclusione degna di essere riportata.

Il ricco occidente si sarebbe tenuta la sua tecnologia sanitaria e il kolkoz il suo orribile cotone zeppo di sale del lago Aral, mentre nelle valli del Pamir la gente avrebbe continuato a fare tre giorni di cammino prima di trovarsi un posto in qualche ambulatorio di stato dove potersi curare la peritonite o la cataratta. Queste considerazioni però, almeno allora, erano di portata insufficiente per modificare, anche di poco, l’andamento della pianificazione quinquennale. Yaro, Pietro, Sergej e tutti gli altri avevano recitato la loro parte, come prevedeva il rigido protocollo di stato.

Quella sera, alla luce del tramonto, sotto i rami dell’insignificante albero rinsecchito che portava però con insolita dignità i sogni di tutti gli abitanti di Kurgan Tyube, noi, tutto ciò, non l’avevamo ancora capito. Il cielo azzurro e rosso, le prime cime dei Pamir bianche di neve, la terra aggredita dal sale e spazzata dal vento, quei bigliettini che sembrava mormorassero al vento.

Forse aveva ragione Goran. Qualcosa di magico, quel posto, certo l’aveva.