Prima Parte

“Domani saranno cinquant’ anni. Cinquant’ anni esatti, sai; anni di apparente oblio, ma noi qui al vecchio porto non dimentichiamo nulla: ed é proprio per ricordare quella vecchia storia che domani don Anselmo uscirà con il gozzo e dirà la Messa proprio davanti al porto. Perché il mare, che da noi é il vero volto di Dio, ci aiuti a capire i suoi misteri e protegga sempre le nostre povere anime”.

Mancava poco all’ora del Rosario e le prime vecchine salivano già i sette gradini della ripida scala davanti alla chiesetta del Prino: il sole, che era stato abbastanza caldo tutto il giorno, stava rapidamente perdendo vigore dietro Monte Calvario mentre, della lunga fila di gozzi colorati in secca al di qua della piccola scogliera frangiflutti, i primi erano già dentro l’ombra del vecchio distributore di benzina abbandonato. Uscendo dal Rosario le vecchine avrebbero trovato sera fonda: un motivo in più per ringraziare il Signore della preoccupante regolarità che assume il tempo nel suo trascorrere. Franco, dopo avermi parlato, era rimasto muto, seduto sul muretto di mattoni di fronte al mare, lo sguardo fisso verso sud, dove in certe sere si può vedere un po’ di Corsica. Al primo tocco della campana che annunciava il Rosario, come fosse il segnale che aspettava, si alzò con decisione, raccolse il suo palamito da cento ami che qualche ora prima aveva finito di preparare, scese i tre gradini che lo separavano dal mare con l’agilità che i suoi settant’anni gli consentivano, raggiunse la sua piccola barca e vi salì: guardò per un attimo il cielo, come si esegue un’ultima manovra di sicurezza e, dopo aver filato le cime di poppa, se ne andò per la sua serata di pesca. Mi salutò appena, alzando il braccio: nessuno di noi due sapeva che non ci saremmo mai più rivisti. Ma tutti e due sapevamo che la storia di Berenice, quella che mi aveva raccontato quel pomeriggio, non andava dimenticata.

E’ per questa ragione che oggi la racconto io.

La storia di Berenice e quella del suo strano equipaggio, almeno quella parte di storia che ci riguarda, inizia nell’estate del 1949, verso la fine di agosto. Le ferite della guerra erano in gran parte rimarginate, quando visibili, e nello spirito della gente era tornata la voglia di vedere i problemi come opportunità: tutto il Paese si stava trasformando e preparando al grande e mai più ripetuto boom degli anni cinquanta e sessanta. Per una serie di ragioni economico-politiche, che avevano tutte a che fare con lo sviluppo turistico di quella parte di costa, fu organizzata la prima regata internazionale riservata a barche a vela costruite fino al 1930.

Fu una grandissima festa e un successo non immaginato: equipaggi inglesi, tedeschi, olandesi, americani, francesi e italiani si contesero pacificamente ma molto agonisticamente il primo trofeo delle Vele d’Epoca. Fino a poco più di due anni prima, gli stessi uomini che veleggiarono quell’anno nel rispetto dei codici sportivi, si erano dati sonore legnate in un’assurda guerra: forse é anche per questo che, da queste parti, vela e pace sono due declinazioni diverse dello stesso concetto.

Dunque arrivarono le barche, diciannove in tutto, tutte bellissime, e tra queste arrivò anche Berenice: per essere sinceri, non si capì subito se Berenice avesse raggiunto il vecchio porto per le regate annunciate o per altre ragioni. Sta di fatto che, di Berenice, nella classifica finale dell’evento, non si fa cenno.

Le barche vennero ormeggiate al molo nord del vecchio porto e in breve divennero oggetto di visita di tutti gli appassionati locali. Berenice era ormeggiata tra una goletta americana del 1910 e un 12 metri SI del 1929; forse non era la barca più veloce, forse nemmeno la più vecchia, ma certamente era la più bella. Era costruita in fasciame di mogano che aveva conservato il suo colore naturale, fiammato di rosso e marrone, e lucido come uno specchio. L’unico albero, anch’esso in legno, era molto più alto di quanto lo scafo fosse lungo. Era stata costruita nel 1911 nei cantieri di Cowes, conosciuti anche per aver creato alcune tra le migliori barche da Coppa America. L’attrezzatura di coperta era di squisita fattura e brillante come oro zecchino. Il ponte, in essenza africana chiara, presentava ampie zone ricoperte da materiale antiscivolo. La poppa, molto rastremata, come, usava allora, si trovava quasi perpendicolare all’acqua e su essa brillavano le otto lettere del nome, in bronzo con il rilievo piuttosto pronunciato: il nome era spesso coperto dalla bandiera della marineria britannica, l’Union Jack, grande come un lenzuolo e solo appena stinta dalla lunga esposizione al sole. Berenice insomma con i suoi 15 metri abbondanti era una gran bella barca, della quale si potevano solo intuire le avventure in mare e le vittorie in competizione.

L’armatore, e anche l’unico umano a bordo, era sir Andreas Bettely. Sir Andreas, o Andy come amava farsi chiamare, sincopando in maniera curiosa il nome e il cognome, era un mammifero di taglia extra large, di statura ben superiore alla media e con tutte le parti visibili del corpo coperte da un fitto strato di pelo rosso, barba e sopracciglia comprese; solo il capo ne era sprovvisto, ma la calvizie, che non sembrava recente, era nascosta da un basco in tessuto scozzese che il nostro amico portava assolutamente sempre, con qualsiasi clima e in qualsiasi occasione. Berenice ormeggiò al posto 26 del molo nord. Andy stava per compiere il suo settantaquattresimo anno di vita: gli ultimi venticinque anni li aveva vissuti in mare, e Berenice era stata la sua casa.

Il secondo abitante di Berenice era uno splendido esemplare maschio di setter irlandese nel cui DNA era scomparsa da tempo la propensione venatoria per lasciar posto all’attività marinara che svolgeva con amore, ma soprattutto con considerevole successo. Molto opportunamente il suo nome era Argo; ci fu chi giurò di averlo visto portare ad Andy le cime d’ormeggio, recuperare in mare parabordi mal legati alla battagliola, dare il suo silenzioso aiuto nel piegare biancheria o arrotolare le scotte. Come spesso succede tra uomo e animale, il legame che esisteva tra i due era tanto intenso quanto reciproco e se fosse stato possibile compiere ricerche mediche sarebbero state anticipate le conclusioni a cui sono giunti oggi i ricercatori del Center for the Advancement of Genomics, la massima autorità in materia di genoma umano: confrontando la mappatura del genoma umano e quella del cane é possibile affermare che c’é una notevole somiglianza genetica tra cani e uomini. Nei giorni delle regate, Andy e Argo rimasero in barca, o lì vicino: Andy cuciva le vele o puliva con maniacale precisione le attrezzature di coperta, mentre Argo, seguendo antiche lezioni di marineria, sistemava ingombranti sacchi vele o mucchi di scotte e cime d’ormeggio: l’accordo tra i due era perfetto. All’ora di pranzo, i due sparivano sottocoperta per poi ritornare qualche mezz’ora dopo sul ponte a godersi un po’ di sole di fine estate.

Le regate finirono e fu fatta una grande festa nel corso della quale, tra le campane che suonavano a distesa e gli spruzzi dei pescherecci all’imboccatura del porto, le grandi e vecchie barche, con gli equipaggi schierati al completo in un commovente saluto alle bandiere, lasciarono la città.

Berenice non partì.

Andy e Argo continuarono a vivere nella loro bellissima barca ormeggiata al molo nord, posto 26. La loro vita era fatta di cose semplici, lunghe passeggiate sui moli, la cura della barca, le serate al lume della lampada a petrolio, sotto stupende stellate.